Era una domenica pomeriggio di un giorno invernale qualsiasi. Il freddo avvolgeva ogni cosa, il vento sferzava la nuda terra e la gente se ne stava tappata in casa, davanti a caminetti accesi e ciocchi scoppiettanti. Chi aveva attività da svolgere entro le mura domestiche, godeva di quelle domeniche soleggiate, tranquille e confortevoli ma, chi non sapeva come trascorrere le ore comprese tra la fine del pranzo e l’inizio della cena, cercava una soluzione per non annoiarsi. C. sapeva perfettamente dove dirigersi e non perdeva tempo. Si cambiava d’abito in gran fretta, infilava gli stivaletti bordati di pelo e, chiavi nel cruscotto, si immetteva nel traffico, destinazione centro commerciale.
All’apertura delle porte automatiche, fu avvolta da un’atmosfera festosa e familiare: a destra i promotori di dolcetti, caffè e compagnie telefoniche, a sinistra il profumo di croissant e pasta sfoglia appena uscita dal forno; dall’alto soffitto di pannelli, scendevano leggeri angioletti e palline trasparenti con al loro interno personaggi del presepe e giocattoli. Le colonne, dipinte di bianco, erano avviluppate da finti rami di pino e festoni dorati.
Un respiro profondo per assorbire l’energia che quel posto emanava, e si avviò lungo l’ampio corridoio. Guardava soprattutto le vetrine, osservava i capi esposti, gli oggetti e le relative targhette; a volte varcava l’entrata di qualche negozio per curiosare tra gli scaffali, ogni tanto estraeva una stampella da un porta abiti e si portava la giacca, la camicia o il vestito davanti alla propria persona e constatava l’effetto allo specchio; sempre riponeva il tutto al posto d’origine. Le piaceva la sensazione di far compere, non necessariamente l’idea di portare a casa nuovi abiti per cui, onde evitare di pentirsi di acquisti non urgenti, fingeva con se stessa di provare questo e quello. Più di tutto le piaceva posare gli occhi nocciola sulle persone, quelle realmente intenzionate a comprare. C’era chi usciva dal camerino e chiedeva un giudizio alla sorella, alla madre, alla fidanzata, all’amica, chi, essendo andato al centro commerciale in solitaria perché “Tanto non ho nulla da prendere”, si rimetteva al consiglio più o meno disinteressato della commessa di turno; poi c’era chi, in preda a crisi di indecisione, chiedeva di provare i jeans a vita bassa, a sigaretta, a zampa di elefante, al ginocchio, mini short, di velluto, a costine, di lana, jeans jeans, blu, verde, nero che non va mai fuori moda, grigio, carta da zucchero, marrone, per la gioia di commesse costrette a prepararsi, contro la loro volontà, alla maratona di New York a cui non parteciperanno mai.
Poi c’era il cliente che non sapeva cosa voleva ma, udite udite, sapeva cosa non voleva. Il risultato era un continuo aprire e chiudere la tenda di panno del camerino, montagne di indumenti accatastati, perché scartati, sul bancone, assieme ad una inserviente preoccupata per la propria sanità mentale: sapere cosa non si vuole implica, come per l’indeciso cronico, diventare psicologa e tentare di entrare nella psiche di una persona mai vista prima, di cui non si sa nulla, ma di cui si devono interpretare i gusti in poco tempo, troppo poco tempo.
L’aspetto che più divertiva in assoluto C. era osservare la gestualità dei clienti e l’espressione dei volti: contriti, disgustati, afflitti, disperati, decisi, traballanti, pensierosi, convinti, determinati, seri, entusiasti, realizzati, impacciati. Li osservava da dietro scaffali e appendiabiti, fingendo di cercare abiti e di curiosare tra la merce; lanciava occhiate furtive, per lo più della durata di pochi secondi ma alle volte si faceva prendere la mano e, per un soffio, non si faceva beccare dagli attori del momento.
Trascorse così un paio d’ore, forse anche tre, uscì dal centro commerciale, lasciandosi alle spalle calore, profumi e visi. Immersa nel buio di una sera fredda che calava sempre più in fretta, guardò il cielo e sorridendo si incamminò verso l’auto.
La neve aveva preso a scendere.