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Archive for the ‘Racconto’ Category

Era una domenica pomeriggio di un giorno invernale qualsiasi. Il freddo avvolgeva ogni cosa, il vento sferzava la nuda terra e la gente se ne stava tappata in casa, davanti a caminetti accesi e ciocchi scoppiettanti. Chi aveva attività da svolgere entro le mura domestiche, godeva di quelle domeniche soleggiate, tranquille e confortevoli ma, chi non sapeva come trascorrere le ore comprese tra la fine del pranzo e l’inizio della cena, cercava una soluzione per non annoiarsi. C. sapeva perfettamente dove dirigersi e non perdeva tempo. Si cambiava d’abito in gran fretta, infilava gli stivaletti bordati di pelo e, chiavi nel cruscotto, si immetteva nel traffico, destinazione centro commerciale.

All’apertura delle porte automatiche, fu avvolta da un’atmosfera festosa e familiare: a destra i promotori di dolcetti, caffè e compagnie telefoniche, a sinistra il profumo di croissant e pasta sfoglia appena uscita dal forno; dall’alto soffitto di pannelli, scendevano leggeri angioletti e palline trasparenti con al loro interno personaggi del presepe e giocattoli. Le colonne, dipinte di bianco, erano avviluppate da finti rami di pino e festoni dorati.

Un respiro profondo per assorbire l’energia che quel posto emanava, e si avviò lungo l’ampio corridoio. Guardava soprattutto le vetrine, osservava i capi esposti, gli oggetti e le relative targhette; a volte varcava l’entrata di qualche negozio per curiosare tra gli scaffali, ogni tanto estraeva una stampella da un porta abiti e si portava la giacca, la camicia o il vestito davanti alla propria persona e constatava l’effetto allo specchio; sempre riponeva il tutto al posto d’origine. Le piaceva la sensazione di far compere, non necessariamente l’idea di portare a casa nuovi abiti per cui, onde evitare di pentirsi di acquisti non urgenti, fingeva con se stessa di provare questo e quello. Più di tutto le piaceva posare gli occhi nocciola sulle persone, quelle realmente intenzionate a comprare. C’era chi usciva dal camerino e chiedeva un giudizio alla sorella, alla madre, alla fidanzata, all’amica, chi, essendo andato al centro commerciale in solitaria perché “Tanto non ho nulla da prendere”, si rimetteva al consiglio più o meno disinteressato della commessa di turno; poi c’era chi, in preda a crisi di indecisione, chiedeva di provare i jeans a vita bassa, a sigaretta, a zampa di elefante, al ginocchio, mini short, di velluto, a costine, di lana, jeans jeans, blu, verde, nero che non va mai fuori moda, grigio, carta da zucchero, marrone, per la gioia di commesse costrette a prepararsi, contro la loro volontà, alla maratona di New York a cui non parteciperanno mai.

Poi c’era il cliente che non sapeva cosa voleva ma, udite udite, sapeva cosa non voleva. Il risultato era un continuo aprire e chiudere la tenda di panno del camerino, montagne di indumenti accatastati, perché scartati, sul bancone, assieme ad una inserviente preoccupata per la propria sanità mentale: sapere cosa non si vuole implica, come per l’indeciso cronico, diventare psicologa e tentare di entrare nella psiche di una persona mai vista prima, di cui non si sa nulla, ma di cui si devono interpretare i gusti in poco tempo, troppo poco tempo.

L’aspetto che più divertiva in assoluto C. era osservare la gestualità dei clienti e l’espressione dei volti: contriti, disgustati, afflitti, disperati, decisi, traballanti, pensierosi, convinti, determinati, seri, entusiasti, realizzati, impacciati. Li osservava da dietro scaffali e appendiabiti, fingendo di cercare abiti e di curiosare tra la merce; lanciava occhiate furtive, per lo più della durata di pochi secondi ma alle volte si faceva prendere la mano e, per un soffio, non si faceva beccare dagli attori del momento.

Trascorse così un paio d’ore, forse anche tre, uscì dal centro commerciale, lasciandosi alle spalle calore, profumi e visi. Immersa nel buio di una sera fredda che calava sempre più in fretta, guardò il cielo e sorridendo si incamminò verso l’auto.

La neve aveva preso a scendere.

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L’attimo

Leggi due righe di un vecchio messaggio. Riapri il libro, che stavi leggendo per la seconda volta, cerchi tra le parole quella dove la tua mente è rimasta, dove hai messo un figurato segno lampeggiante perché ti salti subito all’occhio. Trovi il punto, si parla di foglie rosse che cadono e tu pensi all’ispirazione, all’atmosfera autunnale, così magica, calda e protettiva.

E’ un attimo. Non ti serve molto per pensare a tutte queste cose. E’ un istante che non puoi fermare, non puoi riavvolgere, non puoi toccare. Nel torpore del sole che penetra attraverso il parabrezza, alzi gli occhi all’udire un’esclamazione di stupore, banale, sentita tante volte ma con l’intonazione diversa, atterrita, esplosiva, che ti spaventa, ti distoglie dai tuoi pensieri e ti catapulta davanti ad una realtà cruda, fredda come l’aria che scuote i pioppeti ai lati della strada. Ti si smorza il fiato in gola. Le gambe tremano e per fortuna non puoi cadere oltre il sedile su cui sei già seduto. Il tuo viso, per quanto sia già pallido, diventa quasi trasparente. Perde così tanto colore che attraverso la pelle diafana si possono vedere i pensieri che si rincorrono fino a restare sospesi e incompiuti. Il tempo continua col suo ticchettio ma, tutto attorno, l’esistenza si immobilizza. Unico e stridente contrasto sono le foglie dei pioppi e degli alberi sul ciglio della strada che mormorano sospinte dal vento.

Davanti ai tuoi occhi una macchina ha sbandato tagliando la strada, finendo dalla parte opposta rispetto a quella da cui proveniva. E lì un tiglio dal grosso tronco ne ferma la folle corsa. Attimi sospesi in cui il cuore si arresta, il sangue smette di fluire e una mano si porta davanti alla bocca. Le labbra tremano incontrollate, per la paura, lo stupore, l’immediatezza di quanto accaduto. Nemmeno le preghiere riescono ad uscire tanto la voce è spezzata. Gli occhi sono increduli, le sopracciglia contratte in un’espressione di terrore.

E quando ancora non sai cosa ne sarà di quella persona che stava al volante in una giornata ventosa di maggio, quando tutto quello che riesci a vedere è il muso di una Uno bianca accartocciato attorno ad un tronco, quando ancora non connetti e non sai dove sei, pensi. Anzi, forse non riesci nemmeno a pensare. L’ansia, la tensione, quelle corde nascoste dentro la tua anima che stai cercando di dominare da mesi, quel suono di pianoforte scordato che dentro di te non imbrocca una nota giusta da tempo, forse troppo per ricordarti che la vita va semplicemente vissuta, cogliendo l’attimo presente e senza curarsi troppo del domani, tutto quel groviglio di fili dentro di te sente il bisogno di sciogliersi, di essere avvolto in un gomitolo per trovare ordine e compostezza.

Alla gola si forma però un nodo. Perché non sai che diritto hai, quale sentimento hai il diritto di esprimere. Puoi forse dar sfogo alle tue sofferenze solo perché davanti ai tuoi occhi, forse, una vita, di cui non conoscevi nulla se non il modello dell’auto, rischia di spezzarsi? Ma una goccia che fa traboccare il vaso, non è forse una goccia qualsiasi, una goccia uguale per consistenza e importanza a tutte le altre che nel recipiente si sono ammassate fino a non trovare più posto?

E non puoi. Tu che vedi chiaro e forte il tuo disagio, preciso come se fosse scritto a penna nera su un foglio bianco, capisci che non stai bene. Che certe cose non le hai ancora affrontate e non hai le forze per cominciare altre battaglie. Vorresti un aiuto ma non sai a chi dirigere la tua supplichevole chiamata. Perché tutti sanno solo dire che passerà, che non serve un medico, che costa soldi. Perché dire che hai paura è difficile da pronunciare, come se fosse una parola brutta, maleducata. Perché ti accorgi che tutto può accadere quando meno te l’aspetti. Che un giorno esci di casa per fare un giro e non sai se tornerai. Perché potrebbe accadere qualcosa anche ai tuoi parenti o amici e potresti finire per pentirti o rammaricarti per il poco tempo passato con loro. Perché non capisci più se la tua è solo paura o premonizione. Se quel pensiero assillante che ultimamente ti martella la testa sia solo un fattore consequenziale del dolore che hai provato e che, da essere umano, ti auguri di non riprovare. Perché ti rendi conto che le coincidenze esistono, che non c’è un limite numerico agli addii, che la vita non fa sconti.

E finisci così. Su una sedia, a raccogliere i pensieri che, fortunatamente, hanno ripreso a vorticare nella tua testa, e speri che le tue paure passino, si nascondano come polvere sotto il tappeto della tua camera.

Le allontani. Le soffochi. Sperando che non siano loro a sopraffare te.

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Un colore a cera cadde dal tavolo, ruzzolando prima sulla sedia, poi una capriola e via in volo verso il tappeto. Il marrone era sempre dispettoso. Cadeva spesso e volentieri, come se volesse trovare un modo per non lavorare. Ma il bimbo non si scoraggiava e, con le sue manine tozze, puntava dritto al bastoncino e lo rimetteva in riga assieme agli altri compari.
Sul foglio la sua creazione prendeva forma: una macchia verde da un lato, un serpentello granuloso che la attraversava, un palloncino sul fondo del foglio infilzato da un palo marrone, uno spaventapasseri legato ad un aquilone sghembo. Una fantasia senza pari serviva per vederci il parchetto del quartiere, con i suoi cespugli di bacche rosse, il sentiero di sassi e l’albero posto all’entrata, dove stava spesso il venditore di aquiloni.
La testa ricciuta saltellava su e giù, indaffarata alla ricerca della prospettiva ideale per mettere su carta un ricordo storpiato dagli occhi di bambino. Seduto al suo posto, con le manine tutte sporche, come un vero artista disegnava di getto, senza antemporre l’uso della matita a tutto quel fare cerchi, onde e ghirigori.

Così se lo ricordava.
Ogni volta che pensava a lui, lo vedeva seduto a quel tavolo del salotto, immerso nella luce calda della lampada di ceramica. Con la tutina blu, i piedini scalzi, le gambotte tornite ripiegate sotto al sedere. I ricci castani gli incorniciavano il viso paffuto, segnato da una leggera piega sulla fronte, segno di concentrazione. Poi la testa si  alzava quando sentiva la chiave nella toppa. Fissava la porta dell’entrata e, non appena si schiudeva, il suo viso si illuminava di un sorriso sdentato.
Ma quelli erano ormai ricordi sbiaditi, pagine ingiallite di un album di fotografie vecchio e polveroso. Erano echi di giornate passate a immaginarselo crescere, fare i capricci, innamorarsi, soffrire, diventare uomo.
Poi tutto si era dissolto in un lago di ipocrisia, incomprensioni, testardaggine che non molla e non cede terreno.
Una notte di pioggia di un inverno rigido e vendicativo. L’asfalto bagnato. Un destino segnato in partenza. Una moto che rombava disturbando il ticchettio di gocce che scendevano dal cielo; lacrime per un futuro che non ci sarebbe mai stato.
Una vita che si spezza.
Un volo oltre i confini della realtà.
Un telo su un volto ormai spento.

Tutto quello che sarebbe potuto essere era diventato nulla.
Tutto ciò che non sarebbe mai stato vissuto era diventato freddo.
Restavano solo il rimorso di una madre e una testa ricciuta che non avrebbe più sorriso.

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L’edera era di un verde acceso. Nuove ramificazioni si allungavano come braccia intorno all’edificio. Così invadente il rampicante aveva raggiunto le grondaie del sotto tetto e alcuni ramoscelli pendevano dall’alto come stalattiti estive. Il rosso della pietra, in alcuni punti scrostato dal tempo, era quasi scomparso sotto la furia della natura. Alcune finestre non si vedevano già più sotto il fogliame, altre iniziavano a smarrirsi sotto di esso.

La porta di legno bianco del retro era semi aperta. La tirò con fatica verso di sé, accompagnata dal rumore tipico delle porte che non si usano da anni. Il pavimento era coperto da un sottile strato di polvere, spazzato via ogni tanto dal vento che entrava dalle fessure. Sulla sinistra il vecchio lavatoio, di fronte all’entrata un armadio fatiscente. Dalle finestre dell’entrata sul lato sud entrava la luce del tardo pomeriggio. Ovunque ragnatele, qualche foglia entrata per sbaglio e un odore di lontano. Sulla destra dell’ingresso c’erano le scale con la vecchia e impolverata moquette. Si era sempre chiesta di che colore fosse stata in origine. Forse verde o un rosso acceso? Ora era di un giallognolo, un ocra sbiadito. La balaustra era tutta forata dalle tarme. Quanto l’aveva fatta sognare quel corrimano di legno e quanto l’avevano spaventata quei gradini stretti e poco stabili! Da piccola forse era stata più coraggiosa perché ogni tanto le era capitato di salire al piano superiore ma ora che era lì, da sola, di fronte a quella scalinata ripida si sentiva titubante. Le cose cambiano e anche le persone. Lei si era riscoperta più riflessiva e attenta a calcolare le conseguenze delle sue azioni. Guardò la cima delle scale illuminate dalla finestra ancora salva dall’infestazione dell’edera. Si fece coraggio e calibrando il peso, salì pian piano, un passo alla volta, ogni tanto fermandosi se sentiva qualche scricchiolio. Una volta superata la paura e raggiunta la vetta, guardò giù dalla finestra del pianerottolo. Sterpaglie, erbacce, arbusti misti a ferri vecchi, ecco cosa vedeva là sotto. Scosse la testa. Un senso di malinconia e di sconsolatezza la pervasero. Nessuno aveva mai avuto intenzione di tenere quella casa, di mantenerla integra, decorosa. No, a nessuno importava. La stavano lasciando cadere su se stessa, a sbriciolarsi giorno per giorno, a disgregarsi, senza provare il minimo dispiacere.

Andò verso il bagno. Si ricordava la specchiera sopra al lavabo di ceramica. Sulla sinistra c’era un comò di legno verde con quattro cassetti. Il lampadario pendeva e con uno strano gioco di luci, disegnava forme nuove sulle assi del pavimento. Ora, al centro della stanza, si apriva un buco attraverso cui si poteva vedere la cucina. Era lì, come un baratro da cui si poteva arrivare all’altra parte del mondo. Altre assi stavano marcendo e in un angolo si era creata una voragine più circoscritta. La vasca coi piedi di ferro era in mezzo tra le due falle. Era questione di tempo e sarebbe volata al piano di sotto. Stava appoggiata allo stipite della porta. Rivedeva le bollicine della schiuma arrivare pericolosamente all’altezza del bordo smaltato e una mano adulta e rugosa che chiudeva di corsa i pomelli dell’acqua.

Cominciava a sentire le lacrime pungerle gli angoli degli occhi. Avrebbe voluto gridare che il declino delle cose è il declino delle persone. I ricordi per lei erano tutto, per gli altri non erano nulla.

Si voltò e guardò il lungo corridoio che si snodava davanti ai suoi occhi. Su di esso si aprivano le stanze che un tempo fungevano da camera da letto. Si disse che non valeva la pena andare a vedere il pietoso stato in cui, sicuramente, erano ridotte. Stava per imboccare le scale quando tornò sui suoi passi e andrò dritta all’ultima stanza. La porta era socchiusa. La corrente non era allacciata e dunque l’unica fonte di luce era quella che faceva capolino dagli scuri avvicinati. Alle pareti lembi di carta a losanghe si chiudevano su se stessi come foglie accartocciate d’autunno. Il letto non c’era più e al suo posto sul tappeto restavano i segni della gambe di legno. Sulla destra della porta c’era un vecchio tavolo impolverato e un cassettone aperto. Fece un passo per vedere meglio. Le gambe del tavolo avevano gli stessi intagli a forma di foglia su cui le sue dita di bambina scivolavano affascinate. Nulla era più quello di un tempo. Nulla. I quadri avevano lasciato le loro impronte alle pareti. Sopra alla scrivania rivedeva un campo di grano con tanti papaveri rossi che spiccavano come palle ardenti tra le spighe dorate. Sopra al comò vi era quello con il vaso cinese bianco e celeste e tanti crisantemi. Le veniva raccontata ogni volta la storia di quei fiori orientali, di cui ogni petalo era stata ridotto in striscioline sottili perché ognuna corrispondeva ad un giorno di vita. O qualcosa del genere, ora non avrebbe saputo dirlo con certezza.

A tentoni tornò al piano terreno. Si affacciò sulla cucina e alzando il naso al soffitto vide il buco del bagno. La credenza sulla parete di fondo aveva il vetro rotto, i piatti e le scodelle erano stati portati via. Restava solo il grande tavolo al centro. Le sedie non c’erano. Tutto era così desolato, freddo nonostante l’aria calda. La polvere, le ragnatele che adornavano come festoni a lutto le pareti, i pochi mobili rimasti, la luce fioca che entrava dalle finestre rotte, il pavimento consumato di mattonelle sbeccate, tutto sventolava bandiera bianca come un veliero ormai ridotto alla deriva. La sconfitta era palese, la rinuncia era l’unica strada da percorrere.

Si guardò intorno, percorse i profili dei muri, abbracciò con lo sguardo l’ampio spazio dell’entrata, salì nuovamente con lo sguardo lungo il corrimano ed uscì dal numero 23 senza voltarsi indietro. I suoi ricordi, alcuni vividi altri offuscati dallo scorrere incessante degli anni, la seguirono, anch’essi senza voltare la testa, senza dare un ultimo sguardo all’edificio di un rosso ormai stinto.

Una lacrima lasciò la sua impronta sulla terra davanti alla soglia di casa. E fu tutto quello che lei riuscì a dire.

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Faceva caldo. Dormire con la coperta in fondo ai piedi non era stata una buona idea se poi si doveva svegliare ansante e con la gola secca. Bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta appisolata sul comodino. Ne bevve un altro perchè la gola era talmente arsa che le pareva di avere una spina incastrata da qualche parte.

Era l’1.20. Ormai, dopo inutili tentativi di deglutire normalmente, era totalmente sveglia. Così sveglia da poter riaprire il libro che stava leggendo e vedere cosa la veggente avesse detto a Miriam. Ma era pur sempre l’1.20 di mattina, accendere la luce della camera avrebbe squassato lo spazio tempo capovolgendo la giornata. No era meglio optare per la luce soffusa dell’abat-jour e sperare di ritrovare il sonno. Leggermente seduta sul letto, con il cuscino ben piazzato e tanta buona volontà (la coperta era stata scagliata sul pavimento di legno senza tanti complimenti), si mise a pensare. Guardandosi gli alluci lontani, ebbe la malaugurata idea di soffermarsi sul suo presente, sulla condizione di single che la affliggeva alquanto, non per l’esser zitella in sè, quanto perchè gli anni cominciavano a farsi strada come i primi fili bianchi tra i capelli e l’idea di farsi una famiglia, un giorno, sembrava in pericolo. Quante volte nella sua vita aveva pensato “Questo non accadrà mai a me” o “io non sarò mai così” eppure sembrava che il destino si prendesse gioco di lei. Per esempio la singletudine. Allo stage di qualche anno prima,il datore di lavoro sembrava una persona molto competente nel suo campo, preciso, dinamico, molto preparato. Eppure, a detta degli altri impiegati, non aveva famiglia. Ecco allora che lei pensava di se stessa che una famiglia invece la voleva ma che, ovviamente, non sarebbe stato un problema costruirne una. Già. Quanto si sbagliava. Gli anni erano passati e ancora non si vedeva un uomo all’orizzonte che volesse restare. Tutti fuggivano verso occasioni più leggere e meno impegnative. Come si può in contesti del genere, in cui si comprano i sentimenti come al supermercato (tante son le persone che non ci pensano due volte prima di darsi agli altri), riuscire ad essere scelti, far capire che si è una persona per cui vale la pena fare uno sforzo in più di pazienza e conoscerla, starci insieme con rispetto senza, nel frattempo, scorrere la rubrica per occupare i giorni vuoti con la prima sciacquetta dalla gonna corta (che da tanto è corta chiamarla gonna è un complimento)?

Cosa aveva lei che non andava? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora prima di trovare una persona interessante? Qualcuno per cui valesse la pena di rischiare un futuro insieme? Troppe domande, troppe accuse gettava contro di sè come coltelli affilati. Non era sicura nemmeno del suo radar per gli uomini: troppi errori, troppe delusioni, troppi inciampi. E se il suo futuro consisteva nel non avere un futuro? Perchè avrebbe dovuto soffrire così tanto se alla fine dei suoi giorni non avrebbe potuto cantar vittoria ed essere ricompensata? Perchè continuare a credere che ci fosse un barlume di speranza? Perchè? Perchè?

Angustiata scivolò in un sonno buio e fitto.

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In paese c’era festa quel weekend. Come da qualche anno accadeva, anche quel giugno  era stata organizzata la fiera dei commercianti: stand di negozi, aziende locali, piccoli artigiani avrebbero invaso le vie principali del piccolo comune, intervallati da spazi in cui band di giovani emergenti potevano esibirsi in libertà. Ci sarebbe stato un sacco di gente in giro, tempo permettendo ovvio. La stagione infatti non era delle migliori, temperature al di sotto della media, acquazzoni autunnali, nuvole e grigio quasi costante da settimane.

Sperava davvero che il tempo facesse un’eccezione almeno quel weekend; aveva troppa voglia di farsi un giro in mezzo alla gente, di vedere visi, di sprofondare nel caos di voci e di rumori e magari di…. Magari incrociare quegli occhi che non riusciva a scordare.

Si ricordava ancora la prima volta che li aveva incrociati ben più di dieci anni addietro quando all’epoca della scuola superiore aveva un orario ridotto che le permetteva di raggiungere l’autostazione per tornare a casa con la corsa della mezza. E fu proprio là mentre in piedi sul marciapiede, nell’attesa della corriera, lo vide. Stava seduto (la sua corriera era già arrivata) nella seconda fila alla sinistra del corridoio. Era solo e guardava avanti a sé. Praticamente di lui vedeva solo il profilo e per lei non c’era niente di più perfetto di quel naso piccolo e aggraziato, di quella fronte dritta e non troppo alta, sotto a capelli biondi tenuti ritti col gel. Non c’erano dubbi: aveva trovato il suo tipo ideale. Come imbambolata lo guardava (o forse fissava?) nella speranza che si voltasse e la vedesse, perché se l’avesse vista avrebbe saputo che esisteva ed era già qualcosa. Lo guardava, probabilmente con un’espressione da pesce lesso stampata sul volto acneico, dove il fondotinta che non sapeva applicare (Dio perdoni l’ignoranza di una vanità non ancora sbocciata), creava zone scure in netto contrasto con il collo bianco come il latte, enfatizzando l’espressione da imbranata. Almeno l’apparecchio per i denti non l’aveva più, non che senza avesse maggiori chance di essere notata e ricordata.

Lo fissava ancora ma niente, lui guardava dritto avanti a sé. Ogni tanto lei distoglieva lo sguardo per rivolgerlo alle amiche che attendevano con lei sul marciapiede, fingendo di seguire i loro discorsi ma appena poteva tornava a puntare gli occhi sulla figura maschile. Stava per perdere le speranze quando finalmente la bionda testa fece mezzo giro e i loro occhi si incontrarono. Dentro di lei esplose il concerto di fine anno della Fenice, capeggiata dal maestro Muti che freneticamente dava il via alla marcia di Radetzky, mentre fuochi d’artificio volavano alti nel cielo e irradiavano il creato di mille colori e luci. Il suo cuore batteva all’impazzata, come quando la nazionale ti fa penare ai rigori per poi vincere il mondiale. Sul suo volto di bambina si aprì un sorriso a ventotto denti, i suoi occhi si illuminarono come il sole di luglio. L’adolescenza è un’età in cui i sentimenti fanno fatica a lasciarsi gestire e moderare. Ora, a distanza di tre lustri, avrebbe saputo dimostrare indifferenza, avrebbe imposto alle labbra di rimanere serrate e i suoi occhi si sarebbero posati in quelli di lui come per pura coincidenza, per puro caso e non per un calcolo matematico basato sulle probabilità.

Lui invece questa capacità di distacco e noncuranza l’aveva già assorbita. Sul suo viso non si era mosso un muscolo, né un nervo, nulla che lasciasse trasparire un’emozione, un pensiero qualsiasi. Probabilmente si era voltato perché si sentiva osservato (e come dargli torto?) ma subito aveva ripreso la posizione originaria. Non si sarebbe più girato.

Per lei non era un problema o una manifestazione di rifiuto ma una conquista: ora lui sapeva che lei esisteva. Il fatto che non avesse ricambiato il sorriso o che si fosse pietrificato con lo sguardo altrove, erano solo dettagli trascurabili. Beata gioventù che vive di illusioni.

Nei tempi a venire l’avrebbe visto ancora un paio di volte all’autostazione ma non ci sarebbero state evoluzioni. Nel frattempo la ragazzina aveva raccolto dalle amiche alcune informazioni su di lui: il nome, la scuola, l’età, alcune delle quali con gli anni si sarebbero rivelate errate ma son cose che capitano con le informazioni di seconda o terza mano. Ma poco importava. Col tempo si sarebbe scordata di lui fino a quando dieci anni dopo l’avrebbe intravisto in città, seduto ad una panca con degli amici, sotto un tendone intento a cenare (Rendiamo grazie al Signore per aver inventato le sagre autunnali con la loro alta concentrazione di gente). Certo lo vide di sfuggita e i loro occhi non si incrociarono, lui forse nemmeno si accorse che era passata a due metri da lui ma tanto le bastava per fantasticare e ritornare indietro con la memoria a quel giorno. Che cosa aveva alla fine di speciale? Non lo conosceva eppure le aveva dato l’impressione che fosse un ragazzo per bene, uno tranquillo, rispettoso, gentile ed educato. E per questo non se l’era mai scordato.

Finalmente il week era arrivato. Gli anni erano passati ma il ricordo di lui era sempre più vivo, dovuto anche al fatto che ora lavorava nel suo paese anche se non lo vedeva mai quando lei si addentrava per le vie a far compere; forse un paio di volte l’aveva visto da lontano, una volta mentre guidava e l’altra mentre era a piedi. Inutile dire come il batticuore la assalisse e diventasse incerta nella camminata, a stento riusciva a mettere un piede davanti all’altro senza andare storta. Ma almeno l’espressione del viso riusciva a controllarla dopo una decade di esercizio e training autoimposto.

Sarebbe uscita la sera, intanto la mattina decise di accompagnare la madre nelle commissioni quotidiane per cui, a bordo della piccola auto bianca, partirono. Il sole scottava (era ora che si facesse vivo!) e il lato del passeggero era il posto migliore per godere del tepore primaverile concesso dopo tanta pioggia (guidava la madre).  Primo semaforo verde: proseguirono dritte. Secondo semaforo verde: voltarono a sinistra. E fu lì che lo vide a bordo dell’auto da lavoro, anch’egli seduto al posto del passeggero. Quando si accorse dell’auto (con tutte le scritte esterne era facile riconoscerla) la ragazza si voltò ma non potè dire con certezza che lui avesse fatto altrettanto. Le pareva che allo stesso modo lui si fosse voltato verso l’auto in corsa ma è difficile che due passeggeri si vedano alla svolta ad un incrocio. D’altronde lui poteva benissimo essersi voltato di novanta gradi per parlare col conducente a cui stava facendo lezione eppure, quella sensazione di sguardi che si incrociano, è così menzognera? O la si prova perché i nostri sensi la percepiscono davvero? O è frutto di un’alterazione della realtà? Ma si è pur in grado di capire se una persona ci rivolge il saluto o se ci ha escluso; se qualcuno ci fissa ci batte un martelletto in testa come se lo sguardo picchiasse sulla scatola cranica. E perché allora non dovrebbe essere vera anche quella sensazione?

La sera uscì nella speranza di fare la prova del nove. Girovagò ma di lui nessuna traccia.

Forse non era ancora giunto il momento di incontrarsi davvero. D’altronde se per anni non l’aveva più visto ma solo incrociato di sfuggita, ci sarà stato un motivo o no?

Ma se il motivo fosse stato che non erano destinati a incontrarsi?

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Leggi due righe di un vecchio messaggio. Riapri il libro che stavi leggendo per la seconda volta, cerchi tra le parole quella dove la tua mente è rimasta, dove hai messo un figurato segno lampeggiante perché ti salti subito all’occhio. Trovi il punto, si parla di foglie rosse che cadono e tu pensi all’ispirazione, all’atmosfera autunnale, così magica, calda e protettiva.

E’ un attimo. Non ti serve molto per pensare a tutte queste cose. E’ un istante che non puoi fermare, non puoi riavvolgere, non puoi toccare. Nel torpore del sole che penetra attraverso il parabrezza alzi gli occhi all’udire un’esclamazione di stupore, banale, sentita tante volte ma con l’intonazione diversa, atterrita, esplosiva, che ti spaventa, ti distoglie dai tuoi pensieri e ti catapulta davanti ad una realtà cruda, fredda come l’aria che scuote i pioppeti ai lati della strada. Ti si smorza il fiato in gola. Le gambe tremano e per fortuna non puoi cadere oltre il sedile su cui sei già seduto. Il tuo viso, per quanto sia già pallido, diventa quasi trasparente. Perde così tanto colore che attraverso la pelle diafana si possono vedere i pensieri che si rincorrono fino a restare sospesi e incompiuti. Il tempo continua col suo ticchettio ma tutto attorno l’esistenza si immobilizza. Unico e stridente contrasto sono le foglie dei pioppi e degli alberi sul ciglio della strada che mormorano sospinte dal vento.

Davanti ai tuoi occhi una macchina ha sbandato tagliando la strada, finendo dalla parte opposta rispetto a quella da cui proveniva. E lì un tiglio dal grosso tronco ne ferma la folle corsa. Attimi sospesi in cui il cuore si arresta, il sangue smette di fluire e una mano si porta davanti alla bocca. Le labbra tremano incontrollate, per la paura, lo stupore, l’immediatezza di quanto accaduto. Nemmeno le preghiere riescono ad uscire dalla voce spezzata. Gli occhi sono increduli, le sopracciglia contratte in un’espressione di terrore.

E quando ancora non sai cosa ne sarà di quella persona che stava al volante in una giornata ventosa di maggio, quando tutto quello che riesci a vedere è il muso di una Uno bianca accartocciato attorno ad un tronco, quando ancora non connetti e non sai dove sei, pensi. Anzi, forse non riesci nemmeno a pensare. L’ansia, la tensione, quelle corde nascoste dentro la tua anima che stai cercando di dominare da mesi, quel suono di pianoforte scordato che dentro di te non imbrocca una nota giusta da tempo, forse troppo per ricordarti che la vita va semplicemente vissuta, cogliendo l’attimo presente e senza curarsi troppo del domani, tutto quel groviglio di fili dentro di te sente il bisogno di sciogliersi, di essere avvolto in un gomitolo per trovare ordine e compostezza.

Alla gola si forma però un nodo. Perchè non sai che diritto hai, quale sentimento hai il diritto di esprimere. Puoi forse dar sfogo alle tue sofferenze solo perchè davanti ai tuoi occhi forse una vita, di cui non conoscevi nulla se non il modello dell’auto, rischia di spezzarsi? Ma una goccia che fa traboccare il vaso, non è forse una goccia qualsiasi, una goccia uguale per consistenza e importanza a tutte le altre che nel recipiente si sono ammassate fino a non trovare più posto?

E non puoi. Tu che vedi chiaro e forte il tuo disagio, preciso come se fosse scritto a penna nera su un foglio bianco, capisci che non stai bene. Che certe cose non le hai ancora affrontate e non hai le forze per cominciare altre battaglie. Vorresti un aiuto ma non sai a chi dirigere la tua supplichevole chiamata. Perchè tutti sanno solo dire che passerà, che non serve un medico, che costa soldi. Perchè dire che hai paura è difficile da pronunciare, come se fosse una parola brutta, maleducata. Perchè ti accorgi che tutto può accadere quando meno te l’aspetti. Che un giorno esci di casa per fare un giro e non sai se tornerai. Perchè potrebbe accadere qualcosa anche ai tuoi parenti o amici e potresti finire per pentirti o rammaricarti per il poco tempo passato con loro. Perchè non capisci più se la tua è solo paura o premonizione. Se quel pensiero assillante che ultimamente ti martella la testa sia solo un fattore consequenziale del dolore che hai provato e che, da essere umano, ti auguri di non riprovare. Perchè ti rendi conto che le coincidenze esistono, che non c’è un limite numerico agli addii, che la vita non fa sconti.

E finisci così. Su una sedia, a raccogliere i pensieri che, fortunatamente, hanno ripreso a vorticare nella tua testa, e speri che le tue paure passino, si nascondano come polvere sotto il tappeto della tua camera.

Le allontani. Le soffochi. Sperando che non siano loro a sopraffare te.

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Afa. Non era un buon inizio. I finestrini abbassati del treno 11016 delle otto del mattino davano un’illusione di fresco. Era proprio un agosto caldo, umido, faticoso. Il convoglio sfrecciava tra campi, piccole stazioni di periferia, sotto un cielo pesante di calura. Le nuvole non si vedevano. Sciopero.
Sul sedile, appoggiato allo schienale dritto composto come un militare, stava un giovane sui vent’anni, capelli corti a spazzola e occhi nocciola. Stava là seduto con le mani sulle ginocchia come se stesse ripassando una scena che nella sua mente continuava a ripetersi, sempre uguale, sempre la stessa e mai reale.
Un sospiro e cambiò posizione, si rilassò e tirò fuori dal piccolo zainetto poggiato sul sedile affianco un walkman. Infilò le cuffie e la musica inondò l’aria con potenza. Rebel rebel era la prima. Quel sound graffiante, quella decisione e limpidezza della chitarra facevano venire i brividi. Un piede iniziò a tenere il tempo e le labbra si socchiusero mimando il ritornello. Le mani invece davano concerto come se stringessero tra le dita lunghe una chitarra.
Il tempo passava lento. Le fermate diventavano più rade e il cielo si illuminava sempre di più. Il caldo aumentava e l’aria che entrava dal finestrino faceva solo il solletico. Dopo un paio d’ore arrivò alla stazione del cambio. Scese sul binario e andò alla ricerca del tabello-ne. Il prossimo treno sarebbe partito in una ventina di minuti, giusto il tempo di andare al bar e comprarsi un panino. Lo mangiò seduto su una panchina di pietra, metà all’ombra e metà al sole. Mordeva il pane con lentezza, nessuna fretta a rincorrerlo. Per il prossimo mese avrebbe assaporato tutto con calma, con avidità di sapere, di ricordare, di fissare ogni momento e ogni odore, colore, forma nella sua mente. Andava allo sbando, all’avventura. Voleva conoscere il mondo, vederlo, toccarlo, fermarlo.
Il treno Intercity arrivò al binario 4. Emozionato salì i tre gradini e andò a cercare il suo posto. Le sue mani fremevano, i suoi occhi scorrevano i numeri affissi tra un finestrino e l’altro con agitazione e un leggero batticuore. Trovato il suo posto prese a sistemare lo zainetto. E lo guardò davvero per la prima volta. Era piccolo, con poche cose dentro la grande tasca. L’essenziale dell’essenziale aveva raccattato in fretta e furia dai cassetti della sua stanza. Il portafoglio era più magro che mai, con due banconote a farsi compagnia, una da cinquanta e l’altra da centomila lire. Poi si guardò le scarpe, i pantaloni, la maglietta. Realizzò solo allora che non avrebbe combinato molto. Le sua chance di non rendersi ridicolo erano precipitate miseramente sul pavimento della carrozza 7, andando in frantumi, riducendosi in piccoli pezzetti che si infilavano sotto le poltrone. Corrucciò la fronte. E decise.
Altro tempo passò. Altri campi si profilavano davanti al suo sguardo stanco e rassegnato. La musica si mescolava al rumore delle ruote sulle rotaie, il clangore delle carrozze sballottate nel vento dava alle note una tonalità diversa, spaziale. Non più eccitato ma solo annoiato, guardava il vento dalle fessure degli occhi. Di lì a poco c’era la sua fermata. Guardò l’orologio e le lancette lo prendevano in giro, facendosi beffe di lui, del tempo a sua disposizione, così tanto, una vita davanti, eppure così poco per viverlo a pieno.
L’altoparlante gracchiò qualcosa senza riuscire a farsi sentire. Le parole uscivano dai finestrini e si perdevano nel vento.
Il giovane prese il suo zaino in spalla e attraversò il corridoio con passo calibrato, come se contasse lo spazio verso l’uscita, allo stesso tempo entrata in qualcosa che lo opprimeva. Le porte si aprirono e scese. Il treno ripartì alle sue spalle, diventate curve come se sostenessero un macigno. La testa guardava il marciapiede di cemento, le sue scarpe a dare un tono di colore in quell’ammasso di grigio. Lentamente si voltò e cominciò a camminare.

-Allora com’è andata oggi figliolo?- gli chiese sua madre tornata a casa dal lavoro.
-Le solite cose.- fece lui.
Era tornato a casa.

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I gradini del duomo erano in battuta di sole. Una striscia di luce li illuminava evidenzian-do il pulviscolo sospeso nell’aria. Il vento si era acquietato. La bandiera del municipio si era accasciata sull’asta. I piccioni, pigri e obesi, zampettavano nella piazza alla ricerca di briciole. I due leoni di marmo eretti sul lato sud della piazza troneggiavano sui turisti, gli unici che in quella calura osavano vagare per la città, fatta eccezione per qualche ambulante che tentava a tutti i costi di vendere ombrelli o accendini ai poveri malcapitati che incontrava sulla sua strada.

A vedere lo zig zagare degli stranieri che, muniti di macchina fotografica appesa al collo immortalavano i monumenti, c’era Tom. Seduto sotto il duomo con una gamba piegata e l’altra distesa fino a toccare due gradini sotto a quello su cui si era appostato, guardava, attraverso i suoi occhiali da sole, dei rayban a goccia alla James Dean, il municipio di fronte a lui e l’immobile vita attorno a lui.

Il bar di Gino era ancora chiuso. Gli ombrelloni dei tavolini esterni erano spiegati come vele contro il sole, le vasiere ai lati della porta d’ingresso si facevano custodi di geranei affaticati e piegati su se stessi. Il caldo toglieva le forze ad ogni cosa. L’orologio della torre cominciò il suo rituale di rintocchi. Prima una campana poi un’altra si susseguirono a spezzare la monotonia della piazza. Risuonarono quattro rintocchi e Tom si mise in posizione. Girò lo sguardo verso la viuzza del lato nord che univa il viale principale con la piazzetta della farmacia, quella con la fontana. Iniziò a fissare lo sbocco della via sulla piazza del duomo. Cambiò anche posizione, le gambe entrambe avvicinate e i gomiti sulle ginocchia. Il suo sguardo si posò dapprima su una signora cicciottella con una gran gonna a fiori e un cappello a tesa larga in testa, al braccio una sporta al momento vuota. Poi dietro di lei si fece strada un vecchio signore dall’aria distinta, alto e magro, trainato insistentemente da un bassotto inglese, basso ma evidentemente in piena forza. Poi arrivò lei. Avvolta in un vestito di cotone lungo fino al ginocchio, celeste chiaro con due enormi tasche all’altezza della vita. Le gambe affusolate e ancora pallide spuntavano da sotto la gonna. Al collo pendevano delle perle finte che ballonzolavano ad ogni suo passo. I capelli sciolti, lisci, splendevano al sole come miele di acacia. Per Tom avevano anche lo stesso profumo. La ragazza guardò l’orologio ed entrò di corsa da Gino. Lavorava lì. Da un mese andava ogni mercoledì ed ogni week end a dare una mano. Tom sapeva solo il suo nome e nulla più. Così da quando l’aveva vista la prima volta, si appostava ogni qualvolta ne aveva la possibilità per guardarla arrivare da lontano, con quei vestiti che diventavano sempre più leggeri mano a mano che si andava verso l’estate.

Quando la ragazza scomparve dietro la porta a vetri guardò un’ultima volta la bandiera sul pennone del municipio. Poi si alzò e andò verso il Garibaldi a cavallo per prendere l’autobus.

La bandiera si era riempita di una folata di vento.

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