Musica. Musica e ancora musica. Pause note libertà, per rubare parole di grandi artisti, a cui aggiungere ritmo che scende lungo la spina dorsale e si impossessa di gambe, piedi, braccia, testa. Entra nel corpo, lo attraversa come una scarica elettrica e dà il via alle danze. Prima un piede tiene il tempo mentre si finge di guardarsi intorno con il bicchiere mezzo pieno tenuto saldo tra le mani, lo si sorseggia con indifferenza, si scambia un’occhiata con l’amico, un due battute per riempire le pause fitte di bassi; dopo poco si inizia ad ancheggiare. Il piede trasmette un’idea alla gamba, da lì risale fin sulla coscia, l’impulso arriva al bacino e al centro del corpo da dove si dirama in tutte le direzioni. E diventa movimento puro. La foga assale, l’adrenalina invade il cervello e si inizia a ballare scatenati, senza timore; i passi dapprima accennati prendono forma, inesorabili, a volte un po’ eccentrici, a volte un po’ legnosi. Quando la musica chiama non puoi non rispondere.
Dapprima Beyoncé, poi l’ultima di J Lo, Britney –che resuscita sempre dalle ceneri come un’autentica fenice- e l’immancabile Shakira.
«Vedo che hai voglia di scatenarti stasera! Per fortuna che volevi restare a casa a studiare.»
«Forse avevo bisogno di distrarmi un po’, ecco tutto.»
Le due amiche ballavano seguendo il ritmo, a volte a coppia, stringendosi fingendo una lambada, altre volte mimando le parole delle canzoni, facendosi boccacce, cercando di imitarsi, quasi improvvisando delle piccole coreografie di cui solo loro capivano il senso. Unite più che mai, unite e distanti nel carattere, nell’aspetto eppure complementari, l’una che teneva l’altra con i piedi ancorati a terra e l’irruenta che faceva volare la realista. Si mescolavano alla perfezione ed avevano la certezza che, per qualsiasi evenienza, avevano un numero di telefono a cui rivolgersi.
Stavano ballando al ritmo della musica, quasi sotto al piccolo palco dove avevano sistemato la consolle, quando nella massa di gente che spingeva e sgomitava, Marta fu urtata pesantemente da qualcuno alle sue spalle. L’espressione di dolore mista a fastidio, fece scattare subito Carla che le stava di fronte, allungò un braccio e afferrò il malcapitato. Di lì a poco sarebbe stato sbranato dalla furia del peperoncino del rione, avrebbe fatto una brutta fine. Il ragazzo si girò, Carla aprì la bocca per insultarlo ma si fermò di botto. Il ragazzo girandosi aveva alzato le braccia in segno di scusa e Carla non credeva ai suoi occhi.
«Ehi ciao, ancora tu?» fece questi rivolgendosi a Marta.
«Ancora io cosa? Sei tu che mi sei venuto addosso, io non riesco praticamente a muovermi.» fece di rimando.
«Ma no, non intendevo che mi sei venuta a sbattere, sciocchina. Piuttosto che ci siamo incontrati pure qui.»
L’espressione di Marta era evidente: fronte corrugata, bocca semiaperta con gli angoli verso il basso, occhi puntati in avanti. Non aveva idea di cosa le stesse dicendo. Carla si guardava la scena divertita, in certi momenti la sua amica sembrava venire da un altro pianeta. Sorrideva, a braccia conserte, cercando di indovinare quanto tempo sarebbe trascorso prima che l’arcano fosse risolto. A lei era bastato un decimo di secondo, alla sua amica potevano servire un po’ di minuti in più. Sperava quanto meno che non trascorresse un secolo.
«Ah, ho capito. Non mi hai riconosciuto.»
«Riconosciuto? Ma ci conosciamo? Non mi ricordo di averti visto altre volte.»
«Come no! Uno fa un gesto gentile e poi viene ripagato così. Non voglio i soldi indietro ma un minimo di riconoscimento almeno.» leggermente deluso, fece per girarsi. Allora Carla decise che era l’ora di agire, perché certe volte il destino ti mette su una strada perché l’ha deciso e pertanto è sicuramente da seguire, ma ci sono situazioni in cui il destino non parla a voce abbastanza alta e lì di rumore ce n’era fin troppo. Fu così che prese la mano destra del ragazzo e gli fece fare una giravolta su se stesso.
«Ehi ma sei impazzita?» le chiese sbalordito. Oltre che poco riconoscenti, le nuove generazioni gli sembravano anche maleducate.
«Oh ma allora, sei tu?» fece di rimando Marta guardando prima l’amica e poi lui, dritto negli occhi. Una scarica di emozioni. «Il braccialetto.» continuò guardandolo bene. Era proprio quello. Stessa maglia d’argento, stesso ciondolo a forma di scarabeo.
Liberato dalla presa di Carla, le rispose:
«Sì, lo metto tutti i giorni. Non dirmi che non sapevi che faccia avevo?»
Marta scosse la testa a destra e sinistra e lui scoppiò in una risata. I suoi denti bianchi si mostrarono nella loro lucentezza e a Marta sembrò che si fosse fatto improvvisamente giorno. Tutto lo sguardo gli si era illuminato, anche i suoi occhi dapprima rattristati si erano come svegliati.
«Per questa volta ti perdono ma ora guardami bene eh, che se mi dimentico il braccialetto, tu manco mi saluti se mi incroci per strada.» e risero entrambi.
Certo che aveva due occhi stupendi, di un verde acqua intenso, come il mare calmo delle giornate di agosto, un mare di isole incontaminate, spazi lontani e puliti dove l’uomo non ha lasciato il suo indelebile segno. Le lunghe ciglia nere contornavano quelle sfere facendole risaltare ancora di più e Marta in quegli occhi si perse. Inevitabilmente.
«Beh, cosa facciamo qui? Ti va di bere qualcosa, non so, un cocktail o una Coca Cola, quello che preferisci.»
«Oh sì,» si intromise Carla spingendo Marta da dietro «offrile una Coca Cola. Prima gliel’ho rubata io, ma era per una buona causa, lo giuro!»
«Mi arrendo e poi effettivamente mi è venuta sete con tutto questo ballare.» e sorridendo seguì il giovane verso il bancone del bar. Appoggiati sulla superficie lucida e fredda aspettarono che il cameriere si accorgesse di loro. Ogni volta che si avvicinava e cercavano di agganciare il suo sguardo indaffarato, lui si rivolgeva a qualcun altro, alla loro destra o alla loro sinistra, come se di loro non si fosse accorto. Era un tipo sveglio, lavorava veloce con le mani e sapeva dove stava tutto: bicchieri, alcolici, bibite, acqua, cannucce. Aveva tutto sotto controllo e non faceva mai un movimento che non fosse necessario. Non aveva tempo per dubitare, il tempo era un lusso che non poteva permettersi circondato com’era da una folla di assetati che aspettava solo di ristorarsi un po’. La biondina che stava nel suo stesso settore sorrideva e ammiccava ai clienti e si faceva perdonare la calma con cui serviva le ordinazioni. A quel faccino provocante, a quelle mani lente ma precise, si poteva far perdonare tutto, se eri un maschio con gli ormoni impazziti e voglia di far baldoria; se eri una ragazza, invece, al massimo potevi farti scuotere da un sentimento di alleanza femminile perché in fondo, far la barista attorniata da un branco di leoni affamati, non era una posizione da invidiare.
«Bene eccoci qui, prima o poi vedrai che riusciamo ad ordinare. Intanto dimmi, come ti chiami?»
«Marta, piacere. Tu invece? E, prima che mi dimentichi, grazie per avermi prestato i soldi quel giorno. Non so come ho dimenticato il portafogli in montagna e il tempo era pessimo, c’erano quei nuvoloni neri, senza ombrello, con la valigia.. non potevo tornare a casa a piedi. Mi sarei lavata dalla testa ai piedi con la mia fortuna.»
«Ehi quanto parli, quando inizi non ti ferma più nessuno!»
«Oddio scusami!» fece Marta portandosi una mano alla bocca.
«Scherzavo, tranquilla. Non mi dai fastidio. E io sono Mirko. Piacere mio. Cosa fai nella vita?»
«Studio, all’università. Sono al terzo anno, cerco di laurearmi. Tu invece?»
«Sono consulente per una ditta di abbigliamento sportivo. Diciamo che cerco di far quadrare i conti quando qualcosa va per il verso sbagliato. Mi occupo di incanalare le risorse nella giusta direzione.» e poi rivolgendosi al barista che passava davanti alla loro postazione: «Una Coca Cola e uno Sheridan, con ghiaccio. Grazie.»
«Lavoro interessante, non ti annoi mai, e ora capisco, sistemare guai altrui è il tuo mestiere, ecco perché hai salvato anche me.»
«Hai ragione. Prendo una percentuale per la mia consulenza. E sappi che vale oro.»
«Ti pagherei ma come dicevo, il mio portafoglio è rimasto sui monti a far compagnia alle caprette di Heidi.»
«Diciamo allora che la prima seduta è gratuita.»
«Troppo gentile, davvero!»
E risero, una di quelle risate in cui sei a cuor leggero, senza pensieri. Tutto girava intorno ma spariva. Così leggeri da poter volare alti nel cielo. Arrivano le ordinazioni e appena il barista le appoggiò sul bancone dai bicchieri cadde un po’ di condensa che lasciò un segno circolare di acqua fresca. Il ragazzo si voltò, rapito da altri sguardi di assetati. Stufo e rassegnato alzò le spalle in direzione della sua collega la quale gli rispose ridacchiando. A lui spettava il lavoro più duro perchè era più veloce e pertanto tutti cercavano di attirare la sua attenzione, a lei perdonavano tutto, bastava un occhiolino o un sorriso.
«Parlavi della montagna. Hai una casa là?»
«Sì, l’ha ereditata mia mamma. Era dei suoi genitori e quando eravamo piccole ci portavano lì ogni estate ed ogni inverno. Non è proprio una casa. E’ una baita, ha lo stretto necessario ma a noi bastava. Poi crescendo abbiamo smesso di andarci.»
«Come mai?»
«Un po’ perché si cresce e un po’ perché mia madre ha deciso di darla in affitto per arrotondare un po’. Così se quando ci vado ha trovato qualcuno che vuole passarci un week end o qualche giorno, devo impacchettare tutto in fretta e furia e tornare di corsa in città.»
«Dimenticando il portafogli.»
«Certo, sennò come potevi fare il tuo lavoro anche fuori dall’ufficio?»
E di nuovo risero.
Vrrr, vrrr, vrrr, vrrr.
«Cos’è stato? Ah, forse è il tuo cellulare.»
Marta estrasse il telefono dalla borsa e sbloccò la tastiera. Un messaggio. La bustina lampeggiava sotto i suoi occhi. Chi poteva essere a quell’ora? Chi poteva cercarla all’una di notte? Che fosse? Non restava altro da fare che schiacciare il pulsante, mentre il respiro si bloccava e il suo cuore batteva sempre più forte. “Calmati, smettila di battere così o finirai per uscirmi dalla gola!” si ripeteva per cercare di calmarsi. Da quant’era che non si sentivano? Parecchio. Aveva dimenticato il giorno esatto eppure non riusciva ancora a dimenticare lui o a sperare. A sperare in un errore, un fraintendimento. Avrebbe voluto sentire delle parole di scusa, vivere un momento da fiaba con lui che torna a capo chino e le chiede di ricominciare, senza bugie, senza sotterfugi.
«Allora chi è? Qualcuno di importante, buone o cattive notizie?»
«Come dici? Adesso guardo sì. E’ di Carla. Fa più o meno così: “Girati verso l’uscita e fai ciao con la manina”? Come girarmi? Non capisco.»
«Io sì. Guarda là e saluta la tua amica che se ne va con quel tipo.»
Dall’altra parte della sala, verso l’entrata del Gramelli Carla le inviava baci volanti mentre con una mano si faceva trascinare dal barista fuori dal locale.
«Ma lei doveva accompagnarmi a casa, sono senz’auto, sono venuta con lei! Come faccio ora? Un taxi. Devo cercare un taxi.»
«Se vuoi ti riaccompagno io.»
«No ti ringrazio, hai già fatto molto. Chiamo un taxi e torno a casa.»
«Allora ti pago il taxi.»
«No davvero non serve. Il portafoglio!»
«Appunto. O ti pago il taxi il che a quest’ora di notte tra la chiamata e il tragitto mi spenna, o ti riporto io. A te la scelta.»
«Mi dispiace. E’ che non vorrei farti fare tanta strada per niente. Non so nemmeno da che parte abiti, dovrai fare giri assurdi. Eppure è anche vero che chiamando un taxi ti farei spendere molto di più.»
«Allora per stasera sarò il tuo autista personale.»
«Non so come ringraziarti!»
«Tranquilla, la seconda seduta è a pagamento.»
«Ecco, c’era il trucco. Comunque credo che sia meglio andare. E’ quasi l’una e io pensavo di studiare domattina. Spero che per te non sia un problema.»
«No tranquilla, anzi, devo lavorare per cui prima arrivo a casa e meglio è per tutti. Avverto solo un attimo il mio amico. Tu devi recuperare il cappotto?»
«Sì, l’ho messo al guardaroba. Vado a prenderlo.»
«Perfetto, allora ci troviamo all’ingresso.»
Cercò di farsi largo tra la folla accalcata attorno a lei. Quasi fosse nelle sabbie mobili, più cercava di andare avanti e più veniva risucchiata nella direzione opposta. I “permesso”, “scusa” non sortivano alcun effetto e dopo un po’ di buone maniere iniziò a spingere come facevano gli altri, a pestare involontariamente piedi, a infilzare gomiti e pian piano uscì da quel mare di gente.
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