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Posts Tagged ‘fiori’

Ma a volte, Marina, la gente non si merita la verità.

La vogliono soltanto per giudicarti.

cit. Donne che comprano fiori – Vanessa Montfort

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La vita vola via come fiori di tarassaco soffiati da un vento improvviso, nelle calde sere d’estate.

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Tingon di rosso

all’avanzar di maggio

le fosse e i pra’.

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Assaporo tra

petali d’arancio il

tuo buon profumo

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Come luci gialle

ondeggiano i crocus.

Il vento (so)spira.

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Basta un niente per trovarti ai piedi della malinconia.

Basta un lenzuolo grigio al posto del cielo

per oscurare il tuo umore.

Ad un cuore senza difese basta poco.

Basta poco per marcire come un mazzo di fiori tolto dall’acqua.

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Random #57

E’ l’aria tiepida delle sere di marzo,

sono i campi arati,

i prati prima gialli e poi bianchi di soffioni

che mi catapultano di botto nella mia infanzia,

tra i fossi

i sassi

e i campi,

dove vivevo

senza confini

fisici e mentali.

Mi manca casa mia e,

soprattutto,

mi manco io.

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Sì, provo un interesse nei tuoi confronti. Perché credi che una ragazza cerchi un ragazzo? Per farsi fare le treccine ai capelli? Non credo proprio. E perché non te lo posso dire apertamente, sinceramente, liberamente? Perché non sta bene, non si fa, non si dice?

Sono stufa di imbavagliare il cuore. Si passa la vita a interpretare le frasi altrui, a mediare le proprie, a cercare di farle uscire modificate, codificate; si scelgono accuratamente i termini da pronunciare, messaggiare, inviare; si trascorre la maggior parte del tempo a nascondere i sentimenti dietro sostantivi ambigui, capaci di celare quello che proviamo veramente, aggettivi, verbi, avverbi, sinonimi usati come la rete da circo dell’acrobata, per arrestare eventuali cadute: si butta lì una parola polivalente, sperando che l’altro capisca tutto il discorso che c’è dietro ma, nel caso in cui non lo apprezzasse o storcesse il naso, con la possibilità di battere in ritirata e mentire, con noncuranza, sostenendo che c’è stata incomprensione, perché in realtà intendevano tutt’altro.

Ci dimostriamo superiori, aperti, amici di tutti, ci convinciamo, per convincere gli altri, che prendiamo la vita con filosofia, easy, senza paranoie, così come viene, e che non ci importi nulla di ciò che potrebbe pensare chi ci sta di fronte, quando in realtà costruiamo trincee per paura di essere feriti; viviamo cercando di affondare il prossimo come se fossimo sul punto di affogare, quando invece basterebbe stringerci un po’ per fare posto sulla zattera della vita.

E così ci massacriamo, passiamo più tempo a cercare di distruggere gli altri, tutti potenziali cecchini della nostra felicità, invece di renderci conto che se tutti i cannoni sparassero fiori saremmo tutti più contenti, ciascuno di noi riuscirebbe a raggiungere un pezzetto di cielo, potrebbero esistere giorni in cui gli unici a piangere sarebbero i lattanti che pretendono la poppata.

Guardati attorno: tutti fingono. Fingono di crederti un grande, di condividere ciò che pensi, come lo pensi e il perché lo pensi, ma nessuno avrà il coraggio di dirti quando stai per fare un errore, o per avvertirti che stai per cadere: ti lascerà inciampare oppure cercherà di arrestare la tua corsa verso il traguardo che ti sei prescelto, i tuoi desideri, le cose che fai ascoltando l’istinto, la spontaneità, le tue sensazioni, se non è cool, trend, o sensato o solo perché mosso dall’invidia cieca.

La gente muore tutti i giorni, può essere il padre di un conoscente, la madre di un amico, un tuo parente, un completo estraneo, uno di cui conosci solo il nome, una ragazza di cui conoscevi solo il volto. Se tutto moriamo, giovani vecchi e uomini dell’età di mezzo, perché dobbiamo reprimere ciò che sentiamo, farci la guerra in casa e guardarci con indifferenza?

Se esistesse un conto alla rovescia mondiale al cui termine tutti, contemporaneamente, fraternamente, per sempre, calassimo la maschera che ci siamo cuciti addosso, la vita sarebbe vita e varrebbe davvero la pena di essere vissuta.

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I fiori sul davanzale  erano ormai appassiti; le loro teste, chine oltre il bordo del vaso, avevano perso i petali e, con essi, ogni forma di dignità.

Nessuno badava a loro, nessuno si era curato di cambiar l’acqua o, alla fine della loro breve vita, di ridarli a madre natura.

La polvere si era adagiata sul mobilio come una sovrana, le tende, ormai lì da anni, davano un tenue riparo dai raggi del sole. Solo uno spiraglio entrava e tagliava col suo fascio di luce la stanza di due metà, come un cuore spezzato che smette di battere; strappata sul pavimento stava l’ultima sua lettera, quella dell’addio.

Anche l’orologio, sopra la mensola, aveva immortalato quel tragico momento, fermandosi, quasi gli fosse mancato il fiato per continuare a scandire le ore.

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