Quante ore camminiamo in un giorno, in una settimana, in una vita intera? Muoviamo le nostre esistenze per la più piccola delle necessità: una forchetta, una penna che cade, una conchiglia seminascosta dalla sabbia (anche se, lo ammetto, se riesco a farla incastrare tra alluce e indice e mi risparmio un piegamento della schiena, tanto meglio).
Ebbene, con tutto quello che ci muoviamo, camminiamo, corriamo, zoppichiamo, saltelliamo, ci sono momenti in cui siamo così bloccati da non riucire a muovere un muscolo: l’unico che continua imperterrito è il cuore (grazie al cielo), anche se il ritmo assume contrazioni a volte eccessive. Si contrae e si espande ad una velocità tale che il sangue fluisce continuamente nei vasi sanguigni e le mani, nonchè i piedi, diventano improvvisamente di ghiaccio. E’ la paura che arriva, che irrigidisce le gambe e le fa diventare tronchi di pietra. Non riusciamo a fare un passo senza rischiare di perdere l’equilibrio, non siamo capaci di attraversare lo spazio senza sentire quel rimbombare assordante nelle orecchie che sovrasta ogni altro suono. E’ la paura che prende il sopravvento.
Ma quando si ha paura? Solitamente quando un evento spaventoso si affaccia alla finestra della nostra vita. Vorremmo che avesse sbagliato indirizzo ma, anche se fosse, l’evento è lì e non si può far altro che fronteggiarlo. Queste situazioni che ci terrorizzano sono di varia natura, la più disparata; può essere una malattia, un dolore, una fobia, uno spavento improvviso.
Altre volte la paura deriva dall’ignoto, dal non sapere, dal non conoscere, dalle verità scomode. Preferiamo crogiolarci in un’idea, che abbiamo costruito delle dimensioni di una casa, l’abbiamo arredata, scelto la carta da parati e le mattonelle dei pavimenti, abbiamo sistemato i vestiti nell’armadio e lo spazzolino nel bicchiere del bagno. Fuori, abbiamo dipinto un sole eterno e un arcobaleno tenue, quasi sbiadito. Abbiamo sistemato pure il giardino, un paio di piante dal fusto forte e fronde ampie per riparare dal caldo in un angolo, un tavolo di eucalipto con due sedie poco più in là.
Peccato che manchino le fondamenta.
Ecco perchè c’è la paura: una volta che dovessimo scoprire la verità, la casa sarebbe destinata a crollare su se stessa, il giardino verrebbe strappato da una tromba d’aria e il cielo si farebbe inevitabilmente grigio e cupo.
Ma perchè mantenere in vita una situazione che può vivere solo nella nostra testa? Perchè girare intorno a una palla di vetro così lontana dalla realtà, di cui non abbiamo alcuna prova? Te lo dico io: vuoi essere felice. O fingere di esserlo. Per cinque minuti, un giorno o due settimane. Quando sei triste da tanto tempo, quando il tuo cuore è arido e nessuno lo innaffia da anni, appena spunta un filo d’erba (come abbia fatto ad attecchire con tutte quelle macerie che ricoprono la terra del tuo cuore, non hai proprio mezza idea), lotti per tenerlo in vita, a costo di alimentarlo con bugie e illusioni, immagini e sentimenti, che crei con la forza della fantasia. Cosa si è disposti a fare per un briciolo di pace.
La verità, direbbe qualcuno, è più importante. Ma quando ti ritrovi a mezzo metro da essa, quando ti basterebbe allungare un braccio per toccarla e svelarla, ti irrigidisci, perdi le parole e l’inverno entra nelle tue membra. Un attimo di esitazione e la verità si allontana, prosegue per la sua strada e tu resti a cullare una fantasia ancora per cinque minuti, un giorno, due settimane fino a quando il filo d’erba, mal nutrito, non può far altro che appassire e morire.
Cosa ci hai guadagnato? Cinque minuti, un giorno, due settimane di felicità.