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Posts Tagged ‘scrivere’

Fidati di te stesso

e poi degli altri.

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Mattina.

Dalle tapparelle semiaperte filtrava una luce bianca che andava a stamparsi sulla parete, di fronte alla finestra, dove torreggiava un armadio di legno scuro incassato nella parete. La stanza era in penombra e a farla sembrare ancora più buia c’erano gli altri mobili, un cassettone, una libreria e un letto matrimoniale con comodini ai lati tutti dello stesso legno noce dell’armadio.

Per la precisione erano le nove della mattina. Tardi? Per niente, anzi troppo presto semmai. Nessun impegno per cui fosse obbligato ad alzarsi, non fosse che come sveglia si era messa a tamburellare nella sua testa un’emicrania spaventosa di cui non sapeva spiegarsi il motivo. Cercò di ricordare la serata, la tizia dal caschetto biondo, la corsa in autostrada, il buio della notte, l’esito non consueto per la sua fama da tombeur. Rifletté sulle possibili cause del mal di testa. Il vino forse? Non aveva bevuto granché perché doveva guidare ma la testa gli doleva comunque tanto. Pensò che fosse stata colpa della musica nonostante nel locale ci fosse rimasto sì e no un’ora e il volume non fosse stile discoteca. Pensò che fossero i primi acciacchi dell’età, ma per un giovane a mezza strada tra i venti e i trenta non poteva certo dirsi vecchio o attempato. Con fatica si sollevò dal letto e con addosso solo i pantaloni blu a righe del pigiama, andò alla volta del bagno per recuperare un’aspirina. Una volta in piedi barcollò, sorpreso da un capogiro improvviso che lo costrinse a sedersi nuovamente.

«Piano, è solo dovuto alla velocità con cui mi sono alzato. Ora piano piano mi tiro su, appoggio una mano sul davanzale della finestra e vado in bagno.» A fatica, con movimenti lenti e circospetti, si mise ritto sulle gambe, le braccia tese a cercare appigli lungo la strada. Passo dopo passo, alla velocità di un bradipo, raggiunse l’armadietto dei medicinali. Il solo alzare lo sguardo verso il pensile più alto gli provocò una fitta alla testa che gli fece contrarre di riflesso il volto in un’espressione sofferente. Inghiottire la compressa non fu meno difficile, abbassarsi al livello del lavandino richiese più tempo del previsto e molte cautele. Appoggiato al marmo nero che ricopriva il piano del mobile si guardò allo specchio e scrutò il volto assonnato e malaticcio. Due profonde occhiaie attirarono la sua attenzione:

«Ah Filippo Filippo, che ne sarà di te?»

Scosse la testa in un moto sconsolato, infliggendosi l’ennesima fitta al cranio. Dolente, con la stessa calma con cui aveva affrontato l’andata, fece il percorso a ritroso e si nascose sotto una montagna di coperte.

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Quante ore camminiamo in un giorno, in una settimana, in una vita intera? Muoviamo le nostre esistenze per la più piccola delle necessità: una forchetta, una penna che cade, una conchiglia seminascosta dalla sabbia (anche se, lo ammetto, se riesco a farla incastrare tra alluce e indice e mi risparmio un piegamento della schiena, tanto meglio).

Ebbene, con tutto quello che ci muoviamo, camminiamo, corriamo, zoppichiamo, saltelliamo, ci sono momenti in cui siamo così bloccati da non riucire a muovere un muscolo: l’unico che continua imperterrito è il cuore (grazie al cielo), anche se il ritmo assume contrazioni a volte eccessive. Si contrae e si espande ad una velocità tale che il sangue fluisce continuamente nei vasi sanguigni e le mani, nonchè i piedi, diventano improvvisamente di ghiaccio. E’ la paura che arriva, che irrigidisce le gambe e le fa diventare tronchi di pietra. Non riusciamo a fare un passo senza rischiare di perdere l’equilibrio, non siamo capaci di attraversare lo spazio senza sentire quel rimbombare assordante nelle orecchie che sovrasta ogni altro suono. E’ la paura che prende il sopravvento.

Ma quando si ha paura? Solitamente quando un evento spaventoso si affaccia alla finestra della nostra vita. Vorremmo che avesse sbagliato indirizzo ma, anche se fosse, l’evento è lì e non si può far altro che fronteggiarlo. Queste situazioni che ci terrorizzano sono di varia natura, la più disparata; può essere una malattia, un dolore, una fobia, uno spavento improvviso.

Altre volte la paura deriva dall’ignoto, dal non sapere, dal non conoscere, dalle verità scomode. Preferiamo crogiolarci in un’idea, che abbiamo costruito delle dimensioni di una casa, l’abbiamo arredata, scelto la carta da parati e le mattonelle dei pavimenti, abbiamo sistemato i vestiti nell’armadio e lo spazzolino nel bicchiere del bagno. Fuori, abbiamo dipinto un sole eterno e un arcobaleno tenue, quasi sbiadito. Abbiamo sistemato pure il giardino, un paio di piante dal fusto forte e fronde ampie per riparare dal caldo in un angolo, un tavolo di eucalipto con due sedie poco più in là.

Peccato che manchino le fondamenta.

Ecco perchè c’è la paura: una volta che dovessimo scoprire la verità, la casa sarebbe destinata a crollare su se stessa, il giardino verrebbe strappato da una tromba d’aria e il cielo si farebbe inevitabilmente grigio e cupo.

Ma perchè mantenere in vita una situazione che può vivere solo nella nostra testa? Perchè girare intorno a una palla di vetro così lontana dalla realtà, di cui non abbiamo alcuna prova? Te lo dico io: vuoi essere felice. O fingere di esserlo. Per cinque minuti, un giorno o due settimane. Quando sei triste da tanto tempo, quando il tuo cuore è arido e nessuno lo innaffia da anni, appena spunta un filo d’erba (come abbia fatto ad attecchire con tutte quelle macerie che ricoprono la terra del tuo cuore, non hai proprio mezza idea), lotti per tenerlo in vita, a costo di alimentarlo con bugie e illusioni, immagini e sentimenti, che crei con la forza della fantasia. Cosa si è disposti a fare per un briciolo di pace.

La verità, direbbe qualcuno, è più importante. Ma quando ti ritrovi a mezzo metro da essa, quando ti basterebbe allungare un braccio per toccarla e svelarla, ti irrigidisci, perdi le parole e l’inverno entra nelle tue membra. Un attimo di esitazione e la verità si allontana, prosegue per la sua strada e tu resti a cullare una fantasia ancora per cinque minuti, un giorno, due settimane fino a quando il filo d’erba, mal nutrito, non può far altro che appassire e morire.

Cosa ci hai guadagnato? Cinque minuti, un giorno, due settimane di felicità.

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Stava in piedi, ritta sulle gambe molli per l’angoscia, lo sguardo puntato sulle scarpe impolverate, mentre le braccia ciondolavano inerti lungo il tronco. I capelli erano sciolti e umidi contro le tempie; essi cadevano coprendole parzialmente il volto reclinato in avanti; forse la proteggevano da sguardi indiscreti.

Il cielo era grigio, cosparso da nuvole dai bordi frastagliati. L’aria era umida, pregna del disagio che inzuppa i vestiti fino a farti sentire scomodo e nudo sotto gli sguardi indagatori degli estranei di cui, a rigor di logica, non dovrebbe importarti nulla o quasi. Respirare era impossibile, i polmoni non si riempivamo appieno di ossigeno, tanto l’aria era mescolata ai tormenti dell’umanità.

Un tuono squarciò il velo di silenzio. Poi l’eco gli fece seguito, attenuandosi fino a spegnersi. Prima una goccia scalfì il suolo, sollevando la polvere circostante. Poi un’altra goccia più grossa le fece compagnia.Avvertì un altro tuono, preceduto da un bagliore nel cielo di cui, da dietro i capelli scuri appiccicati alla fronte, vide solo il chiarore provocato  attorno a lei, come se avessero acceso un faro per illuminarla e poi, l’avessero subito spento.
Fu allora che le gambe cedettero; si piegarono su se stesse e lei perse l’equilibrio. Finì per sbattere le ginocchia sulla terra, cozzando contro qualche sasso. Dalle ferite uscì un rivolo di sangue che presto si mescolò al terriccio, diventando fango rossastro. Un altro tuono, stavolta più vicino, la assordò. In fretta si tappò le orecchie per proteggerle dai brontolii che sarebbero arrivati di lì a poco.

Fu come un incubo, in cui gridi ma finalmente ti svegli. Ma non accadde, non si svegliò. Però urlò, questo sì, e mentre la sua voce si mescolava, come una preghiera disperata, alla voce possente e minacciosa della natura, il cielo iniziò a piangere per lei.

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Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,

ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.

cit. “Anna Karenina” – Lev N. Tolstoj

L’ho sempre pensato anch’io, ma delle persone in generale, solo che non sapevo come dirlo.

Tolstoj l’ha saputo esprimere meglio di quanto potessi fare io.

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Non porto rancore,

Ho solo una memoria di ferro.

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A volte il tempo è solo una grandezza

che non senti sulla pelle,

non percepisci col passare dei giorni sul calendario

ma con l’intensità dei sentimenti

che col suo inesorabile incedere

si amplificano fino a farti soffocare.

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Perdersi nei dettagli alle volte non è saggio.

Si rischia di imprimersi nella mente due occhi azzurri

senza saper riconoscere il viso in cui sono incastonati.

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In paese c’era festa quel weekend. Come da qualche anno accadeva, anche quel giugno  era stata organizzata la fiera dei commercianti: stand di negozi, aziende locali, piccoli artigiani avrebbero invaso le vie principali del piccolo comune, intervallati da spazi in cui band di giovani emergenti potevano esibirsi in libertà. Ci sarebbe stato un sacco di gente in giro, tempo permettendo ovvio. La stagione infatti non era delle migliori, temperature al di sotto della media, acquazzoni autunnali, nuvole e grigio quasi costante da settimane.

Sperava davvero che il tempo facesse un’eccezione almeno quel weekend; aveva troppa voglia di farsi un giro in mezzo alla gente, di vedere visi, di sprofondare nel caos di voci e di rumori e magari di…. Magari incrociare quegli occhi che non riusciva a scordare.

Si ricordava ancora la prima volta che li aveva incrociati ben più di dieci anni addietro quando all’epoca della scuola superiore aveva un orario ridotto che le permetteva di raggiungere l’autostazione per tornare a casa con la corsa della mezza. E fu proprio là mentre in piedi sul marciapiede, nell’attesa della corriera, lo vide. Stava seduto (la sua corriera era già arrivata) nella seconda fila alla sinistra del corridoio. Era solo e guardava avanti a sé. Praticamente di lui vedeva solo il profilo e per lei non c’era niente di più perfetto di quel naso piccolo e aggraziato, di quella fronte dritta e non troppo alta, sotto a capelli biondi tenuti ritti col gel. Non c’erano dubbi: aveva trovato il suo tipo ideale. Come imbambolata lo guardava (o forse fissava?) nella speranza che si voltasse e la vedesse, perché se l’avesse vista avrebbe saputo che esisteva ed era già qualcosa. Lo guardava, probabilmente con un’espressione da pesce lesso stampata sul volto acneico, dove il fondotinta che non sapeva applicare (Dio perdoni l’ignoranza di una vanità non ancora sbocciata), creava zone scure in netto contrasto con il collo bianco come il latte, enfatizzando l’espressione da imbranata. Almeno l’apparecchio per i denti non l’aveva più, non che senza avesse maggiori chance di essere notata e ricordata.

Lo fissava ancora ma niente, lui guardava dritto avanti a sé. Ogni tanto lei distoglieva lo sguardo per rivolgerlo alle amiche che attendevano con lei sul marciapiede, fingendo di seguire i loro discorsi ma appena poteva tornava a puntare gli occhi sulla figura maschile. Stava per perdere le speranze quando finalmente la bionda testa fece mezzo giro e i loro occhi si incontrarono. Dentro di lei esplose il concerto di fine anno della Fenice, capeggiata dal maestro Muti che freneticamente dava il via alla marcia di Radetzky, mentre fuochi d’artificio volavano alti nel cielo e irradiavano il creato di mille colori e luci. Il suo cuore batteva all’impazzata, come quando la nazionale ti fa penare ai rigori per poi vincere il mondiale. Sul suo volto di bambina si aprì un sorriso a ventotto denti, i suoi occhi si illuminarono come il sole di luglio. L’adolescenza è un’età in cui i sentimenti fanno fatica a lasciarsi gestire e moderare. Ora, a distanza di tre lustri, avrebbe saputo dimostrare indifferenza, avrebbe imposto alle labbra di rimanere serrate e i suoi occhi si sarebbero posati in quelli di lui come per pura coincidenza, per puro caso e non per un calcolo matematico basato sulle probabilità.

Lui invece questa capacità di distacco e noncuranza l’aveva già assorbita. Sul suo viso non si era mosso un muscolo, né un nervo, nulla che lasciasse trasparire un’emozione, un pensiero qualsiasi. Probabilmente si era voltato perché si sentiva osservato (e come dargli torto?) ma subito aveva ripreso la posizione originaria. Non si sarebbe più girato.

Per lei non era un problema o una manifestazione di rifiuto ma una conquista: ora lui sapeva che lei esisteva. Il fatto che non avesse ricambiato il sorriso o che si fosse pietrificato con lo sguardo altrove, erano solo dettagli trascurabili. Beata gioventù che vive di illusioni.

Nei tempi a venire l’avrebbe visto ancora un paio di volte all’autostazione ma non ci sarebbero state evoluzioni. Nel frattempo la ragazzina aveva raccolto dalle amiche alcune informazioni su di lui: il nome, la scuola, l’età, alcune delle quali con gli anni si sarebbero rivelate errate ma son cose che capitano con le informazioni di seconda o terza mano. Ma poco importava. Col tempo si sarebbe scordata di lui fino a quando dieci anni dopo l’avrebbe intravisto in città, seduto ad una panca con degli amici, sotto un tendone intento a cenare (Rendiamo grazie al Signore per aver inventato le sagre autunnali con la loro alta concentrazione di gente). Certo lo vide di sfuggita e i loro occhi non si incrociarono, lui forse nemmeno si accorse che era passata a due metri da lui ma tanto le bastava per fantasticare e ritornare indietro con la memoria a quel giorno. Che cosa aveva alla fine di speciale? Non lo conosceva eppure le aveva dato l’impressione che fosse un ragazzo per bene, uno tranquillo, rispettoso, gentile ed educato. E per questo non se l’era mai scordato.

Finalmente il week era arrivato. Gli anni erano passati ma il ricordo di lui era sempre più vivo, dovuto anche al fatto che ora lavorava nel suo paese anche se non lo vedeva mai quando lei si addentrava per le vie a far compere; forse un paio di volte l’aveva visto da lontano, una volta mentre guidava e l’altra mentre era a piedi. Inutile dire come il batticuore la assalisse e diventasse incerta nella camminata, a stento riusciva a mettere un piede davanti all’altro senza andare storta. Ma almeno l’espressione del viso riusciva a controllarla dopo una decade di esercizio e training autoimposto.

Sarebbe uscita la sera, intanto la mattina decise di accompagnare la madre nelle commissioni quotidiane per cui, a bordo della piccola auto bianca, partirono. Il sole scottava (era ora che si facesse vivo!) e il lato del passeggero era il posto migliore per godere del tepore primaverile concesso dopo tanta pioggia (guidava la madre).  Primo semaforo verde: proseguirono dritte. Secondo semaforo verde: voltarono a sinistra. E fu lì che lo vide a bordo dell’auto da lavoro, anch’egli seduto al posto del passeggero. Quando si accorse dell’auto (con tutte le scritte esterne era facile riconoscerla) la ragazza si voltò ma non potè dire con certezza che lui avesse fatto altrettanto. Le pareva che allo stesso modo lui si fosse voltato verso l’auto in corsa ma è difficile che due passeggeri si vedano alla svolta ad un incrocio. D’altronde lui poteva benissimo essersi voltato di novanta gradi per parlare col conducente a cui stava facendo lezione eppure, quella sensazione di sguardi che si incrociano, è così menzognera? O la si prova perché i nostri sensi la percepiscono davvero? O è frutto di un’alterazione della realtà? Ma si è pur in grado di capire se una persona ci rivolge il saluto o se ci ha escluso; se qualcuno ci fissa ci batte un martelletto in testa come se lo sguardo picchiasse sulla scatola cranica. E perché allora non dovrebbe essere vera anche quella sensazione?

La sera uscì nella speranza di fare la prova del nove. Girovagò ma di lui nessuna traccia.

Forse non era ancora giunto il momento di incontrarsi davvero. D’altronde se per anni non l’aveva più visto ma solo incrociato di sfuggita, ci sarà stato un motivo o no?

Ma se il motivo fosse stato che non erano destinati a incontrarsi?

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La vita è un’incognita senza equazione

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